Don Luca

Un progetto di Sebastiano Luciano con testi di Ilaria de Bonis

«E’ appena stato qui don Luca… E’ passato da casa mia e m’ha portato un messaggio di mio marito da Rebibbia. Ma è ancora in zona, se girate per i lotti prima o poi lo beccate. So che andava a visitare una signora ammalata».

A Bastogi – ex residence su via Boccea per sfrattati in perenne attesa di casa – è impossibile non conoscere Luca Filippi, “il prete che vive coi rom”. Ed è anche impossibile rintracciarlo. Se non ‘seguendolo’ nei suoi spostamenti in motorino. Don Luca non possiede cellulare. Al telefono fisso non lo si trova quasi mai.

È un furetto sempre in movimento, a servizio della gente. Una specie di ponte tra il fuori e il dentro. Tra il mondo fuori Bastogi e il mondo dentro Bastogi. O anche tra il mondo del carcere e quello della libertà.

Trentotto anni, magro magro e atletico, accento romano, capelli arruffati, la barba d’un giorno, gli occhi buoni che guardano dritto negli occhi e quando sorridono hai la netta sensazione che stiano sorridendo esattamente a te: questo è don Luca. Entra con delicatezza nei drammi e nei frammenti di vita. Nelle quotidianità impossibili.

«Quando l’ho visto la prima volta gli ho detto: ma che sei un prete te? Ma nun me fa ride! Nun s’è mai visto un prete così, tutto arrangiato, senza manco na croce», racconta Silvana (47 anni, disoccupata, senza fissa dimora, ex alcolizzata, vittima di violenza domestica), oggi sua fedelissima parrocchiana.

Sempre in tuta e scarpe da ginnastica, niente talare, quando dice messa Luca indossa la tunica bianca sulla felpa blu. Effettivamente non lo diresti un prete. Non solo perché ha rinunciato allo stipendio del sostentamento del clero. Ma anche perché vive in casa con una famiglia rom, ha ‘abbandonato’ la parrocchia vera, lavora per pagare l’affitto. Non è ‘vicino’ ai poveri, ma lui stesso un “povero”. Per mantenersi pulisce gli androni dei palazzi, fa l’idraulico, inventa lavoretti.

Le sue messe sono un’esperienza. Non esiste chiesa a Bastogi. Solo una cappella allestita in un locale al piano terra di uno dei sei lotti, col perenne odore di sudore nell’aria, il bambù alle pareti al posto del tabernacolo. La domenica alle 11 si celebra la messa di don Luca. Quando arriva apre l’armadietto sbilenco, indossa la veste bianca, gioca con i bambini, prepara le ostie, stende sull’altare il lino immacolato.

Poi si siede e aspetta. Salvatore, Silvana, Donatella, Silvia, i bambini, arrivano alla spicciolata, lo salutano col cinque. La lettura del vangelo è un racconto di vita. Niente prediche, nessuna separazione tra sacerdote e fedeli. Capita che durante la messa lui si avvicini per dare la benedizione ai nuovi arrivati. Capita che ti chiami per nome. Capita di sentir raccontare una storia che riguarda tutti. Il padre nostro è una preghiera mano nella la mano, la comunione non la si riceve la si prende dal calice. Luca ha scelto di stare dentro, di essere uno fra tanti. «Senza distanza tra me e gli altri. Senza altare», spiega. Il vangelo non lo vuole solo leggere, riesce a viverlo dall’inizio alla fine.

© 2013